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Prendere o lasciare #ascoltoattivo #cambiodiruolo #responsabilitàpersonale

La sedia di fronte

Per fare la propria parte e alleggerire il confronto con la collega che sta supervisionando, Paola propone un insolito scambio di ruoli: terrà lei la presentazione del farmaco durante il colloquio, e si farà poi giudicare dalla ragazza.

 

 

Aveva trent’anni, suppergiù. E di solito andava così: entrava in uno studio medico e si metteva seduta in disparte, per ascoltare l’informatrice o l’informatore di turno mentre raccontava come e perché il vaccino della sua azienda era necessario. Poi doveva dare all’informatrice o informatore di turno un feedback sulle capacità comunicative e sull’andamento dell’incontro. Pe dirla tutta, dunque, non è che Paola fosse particolarmente amata dagli informatori. 

Era innanzitutto un problema del ruolo: il trainer, nella sua azienda di vaccini come nel mondo farmaceutico in generale, è infatti quella figura che viene mandata appositamente per verificare che gli informatori medico-scientifici comunichino nel modo corretto il valore e le caratteristiche dei prodotti. 

Tuttavia, malgrado la scomodità in cui spesso la metteva il ruolo, per Paola quelli erano anni in cui si sentiva comunque piena di ambizioni e determinazioni. E quell’anno in particolare poteva rappresentare un turning point nella carriera – la sua azienda aveva da poco rilasciato il vaccino contro il papilloma virus, quel virus molto comune che colpisce sia maschi che femmine ed è la causa principale del cancro alla cervice uterina, e aveva messo in campo un grandissimo numero di informatori, assunti proprio per far conoscere l’importanza della novità. 

Paola si ritrovava così con più responsabilità. Era stata assegnata come trainer all’area geografica del nord est – lei che veniva da Milano. E proprio in quell’area era arrivata anche un’informatrice di nome Barbara, di Ancona, trentenne come lei: lavorava nelle zone di Bolzano e Merano alzandosi all’alba per essere negli studi medici per le sette e trenta, le otto al massimo, perché in quelle zone montane i medici aprono prestissimo e bisogna riuscire ad arrivare prima dei pazienti. Si trattava di piccoli e curatissimi studi in piccoli e curatissimi paesini di montagna, dove spesso dalla finestra si vedeva la stalla di un fattore, e si trattava di medici che parlavano poco e male l’italiano, ma perfettamente il tedesco. Questo per dire che c’erano delle difficoltà oggettive per una che, come Barbara, veniva dalle Marche e si ritrovava in paesini come San Candido, di fronte a un medico i cui pazienti avevano un’età media di 70 anni e che, per ogni parola in italiano, ne diceva dieci in tedesco – e le toccava spiegare proprio a quel medico che adesso c’era un nuovo vaccino che avrebbe mandato in pensione il Pap Test … Insomma, non era una situazione semplicissima.

Ma se stiamo parlando di Barbara, la ragione è Paola, perché dopo aver presenziato ai primi incontri, dopo le prime interviste dove si limitava a stare zitta, a valutare, a osservare, accadeva sempre più spesso che Paola, uscendo dallo studio del medico di turno, cercasse di dare un feedback a Barbara e si ritrovasse preda del suo stesso disagio. Empatizzava. Aveva infatti la sensazione di essere vissuta come un controllore, appiattita nel ruolo, nulla di più che una persona messa lì per esaminare e giudicare parole e comportamenti. Ogni volta che la porta di Herr Doktor si chiudeva e loro due si dirigevano verso la macchina, Paola notava che il volto e il corpo di Barbara si irrigidivano, e il silenzio che riceveva come risposta ai commenti era duro, come un muro che si ergeva inesorabile. Sempre così, ogni martedì e venerdì, ogni volta peggio… finché Barbara non iniziò addirittura ad impappinarsi di fronte a diversi Herr Doktor, per il disagio cresceva in lei e attorno a lei.

La mattina dell’appuntamento con tale Doktor Vögele, dunque, era uno di quei giorni prendere o lasciare. Barbara avrebbe potuto sprofondare nel disagio, e Paola avrebbe fatto altrettanto se non avesse pensato che basta, bisognava cambiare qualcosa. Rompere la routine. 

Se prese la decisione definitiva in un istante, va detto che era dalla sera prima che ci rifletteva, mentre preparava la valigia per Merano – le era salito uno sconforto tremendo all’idea di dover rivivere la stessa situazione delle ultime settimane. E quando poi lo propose davvero a Barbara, in cambio ricevette uno sguardo perplesso. Ma non ci fu tempo per altro: l’informatrice delle Marche non ebbe il tempo di rifiutare o accettare esplicitamente perché la solerte segretaria del Doktor Vögele aprì la porta e invitò entrambe a entrare. 

Varcarono la soglia insieme e poi, stretta la mano del dottore, stavolta fu Paola a sedersi sulla sedia davanti alla scrivania, e in men che non si dica iniziò a illustrare i benefici del vaccino mentre Barbara, ancora un po’ incredula, prendeva posto sulla sedia accanto alla scrivania e osservava in silenzio, meditando sul fatto che poi sarebbe stata lei a dover dare un feedback.

E lo fece, mentre tornava insieme a Paola verso la macchina. Commentò anche con durezza, come se dovesse scrollarsi di dosso il disagio, ma grata che la vera trainer avesse preso quell’inedita decisione. Che avesse proposto (o imposto, in un certo senso) quel cambio di ruoli. Che avesse avuto il coraggio, e la disponibilità, di mettersi nei suoi panni – perché così, nelle settimane successive, Barbara divenne molto più collaborativa e le rigidità lasciarono spazio all’ascolto; lei e Paola svilupparono una relazione di stima, di sintonia, di una sintonia che poi rimase negli anni.

 

“Miky, Michela mi senti?” 

“Paola, ti sento a scatti…ende male…”

“Non ti sento.”

“Ti richiamo…altro momento.”

“Aspetta, aspetta…” 

Adesso la comunicazione era limpida.

“Voglio raccontarti com’è andata con Barbara.”

“Perché, ha accettato davvero? E tu ti sei agitata davanti al medico? Meno di mezz’ora?”

“Quando parli di un vaccino così importante non serve girarci intorno. E poi ricordati che non esiste un buono o cattivo informatore, ma…”

“…un buono o cattivo ascolto.”

La voce di Paola si mescola al suono metallico e gracchiante della linea disturbata.

“Devo lasciarti. Ci vediamo in settimana quando rientro a Milano, okay?”

“Sì.”

“Ciao… e brava, ben fatto.”

Paola chiude la telefonata e si dà un’occhiata in giro, senza rendersene conto ha camminato un bel po’ in cerca del segnale telefonico e adesso si trova in centro, davanti alla Forsterbräu. Si ferma lì, come indecisa sul da farsi, e un gruppo di studenti le passa accanto vociando. Poi avverte il rintocco del campanile di San Nicolò – le sei di sera. Allora si toglie la giacca e, per festeggiare quel rischio che ha scelto di prendersi, decide di entrare e bersi ein gutes Bier. Perché quando si attraversa lo spazio della scelta, accettando di fare un passo avanti verso un impegno con il proprio ruolo, quel movimento lascia sempre una traccia dentro di noi – un movimento che continuerà a raccontare chi siamo. E infatti, dopo più di 20 anni, Paola non ha ancora smesso di prendersi la responsabilità delle sue idee e delle sue intuizioni, e lo fa insieme a noi, gli humans of Diasorin.

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Scritto da Ginevra Molteni

con la redazione di Prendere o lasciare

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