logo
logo
tipo Leggi
Editoriali

Prestare attenzione

C’è quest’usanza dei college statunitensi: invitare qualcuno di importante a tenere un discorso ai laureandi. Avete presente gli studenti in toga che tirano il cappello (il tocco) in aria, tutti insieme, come si vede nei film? Ecco, il discorso di conferimento della laurea avviene giusto un attimo prima, e le personalità che prendono parola di anno in anno sono ovviamente diversissime, proprio come il tenore dei discorsi: gran parte scontati, alcuni ampollosi, qualcuno invece lascia il segno.

E il discorso pronunciato in una mattina tersa di vent’anni fa, per l’esattezza il 21 maggio del 2005 al Kenyon College in Ohio, è tra i pochi che hanno lasciato il segno – non solo in studentesse e studenti radunati là, ma in tanti di noi che in Ohio non c’erano.

A pronunciare il discorso, un po’ a disagio dietro il microfono del podio perché non ama parlare in pubblico, è un uomo che di mestiere fa lo scrittore (e l’insegnante). Ha quarantatré anni e il suo nome è David Foster Wallace: nome cult per gli appassionati di letteratura. E se qui non c’è spazio per ricordare quanto abbia influenzato e ispirato il pensiero attorno e dopo di lui, non solo in letteratura, possiamo dire senza timore di smentita che è stato tra i più grandi. E che purtroppo non è più tra noi. Tuttavia, ciò che ha scritto resta, e restano le parole dette quella mattina davanti a studenti, genitori, autorità. Per fortuna, infatti, le sue parole sono state messe nero su bianco in Questa è l’acqua, libro pubblicato in Italia nel 2009. E se lo rievoco qui è perché trovo che possa aiutarci a dire il senso profondo di Humans of Diasorin.

Il punto centrale del discorso di Wallace è il seguente: la libertà e la consapevolezza di scegliere a cosa prestare attenzione. E se si tratta di un punto decisivo per chi, laureando, sta per avventurarsi nella vita da adulto, anzi in quelle che Wallace definisce le trincee quotidiane della vita da adulti, è indubbiamente un punto decisivo in generale. Per chiunque. Perché negli anni la libertà e la consapevolezza rischiano di assottigliarsi, spegnersi, insomma scivolano via. Per ragioni numerose ed eterogenee: dalla pressione sociale ai modelli culturali, dal marketing alla politica, fino alle incombenze che non ci lasciano respirare. Ma quel che possiamo fare noi, per restare umani, è sforzarci di esercitare la libertà e la consapevolezza di scegliere a cosa prestare attenzione senza farcelo imporre. E senza dunque finire per trascurare quel che è così “nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: ‘Questa è l’acqua, questa è l’acqua…’”

L’acqua di cui parla Wallace viene dalla storiella che lui stesso racconta nel primo minuto del discorso, e vi prego di immaginare le facce dei genitori degli studenti che, avendo pagato fior di soldi per farli studiare, si ritrovano ad ascoltare un incipit del genere: “Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice:

“Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?’ I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: ‘Che cavolo è l’acqua?’”

Per non dilungarmi vado dritto al sodo: nelle trincee della vita quotidiana, spesso perdiamo di vista l’habitat in cui nuotiamo, la porzione di realtà che abitiamo. Perdiamo di vista di cos’è fatto e del perché è fatto in un certo modo. E poiché buona parte di questo habitat è umano, Humans of Diasorin è appunto un gesto di consapevolezza e libertà, per tornare a scegliere a cosa prestare attenzione. Oggi, in un mondo del lavoro dove moltissimo viene ridotto a metriche ed efficienza, riscoprire l’acqua calda equivale infatti a non perdere di vista che, malgrado tutto, quel mondo è fatto prima di tutto di persone. Non solo di colleghi. Di persone che hanno vite, esperienze, capacità non solo professionali. E che sono proprio loro a dare valore e valori all’habitat – e così, faccenda fondamentale, a determinarne la “cultura”.

Quando abbiamo iniziato il percorso che oggi vede la luce nel primo numero di questo magazine, tappa di un viaggio ancora in corso, ciò che avevamo in mente era esattamente questo: comprendere come l’umano contribuisce a definire l’habitat in cui, lavorando, trascorriamo molte ore della giornata. E tradurre in pratica quell’ambizione, per chi si è messo in viaggio, ha significato ricavare tempo, spazio, energie, occasioni nel flusso di impegni settimanali, mensili, annuali. Ha significato esercitare attenzione. E se un viaggio così, tutt’altro che scontato, ha potuto cominciare, è perché muoveva da convinzioni forti, radicate anzitutto in Mario Da Ronco, Country Manager & Executive Board Member di Diasorin.

“Difficile pensare a un’organizzazione di successo senza anima – probabilmente meccanica ed efficiente, ma non in grado di adattarsi rapidamente al cambiamento. Di gestire l’imprevisto. Di occupare gli spazi.  E non intendo quelli fisici. È l’anima delle persone che rende viva un’azienda. Che ne definisce il carattere, l’attitudine. Partendo dall’ingrediente base: la fiducia. Che non si genera premendo un bottone oppure utilizzando un tool. Bisogna agirla. Ogni giorno. E per farlo è necessario dare la giusta attenzione alle persone, ascoltare e conoscere. E quale modo migliore esiste di conoscere le persone, se non attraverso le loro storie? E se raccontate dai propri colleghi?”

Sarebbe sbagliato affermare che abbiamo scelto un primo gruppo di donne e di uomini di Diasorin, i cui nomi trovate al fondo dei pezzi pubblicati: sono stati loro a scegliere di mettersi in viaggio. E insieme abbiamo quindi trascorso lunghe ore a esercitare attenzione anzitutto sul sé, cioè a scendere in profondità dentro noi stessi attraverso le parole, con l’obiettivo di comprendere come e quanto le storie ci determinano personalmente. E l’abbiamo fatto perché solo così avremmo potuto sviluppare la sensibilità e il rispetto indispensabili per accorgersi delle storie altrui, raccoglierle, restituirle. Si trattava insomma di prepararsi per entrare in connessione in maniera differente dall’abituale, di coltivare l’empatia per aprire un vero canale di comunicazione – cioè, etimologicamente, di messa in comune di qualcosa tra sé e gli altri. Qualcosa di vero, appunto.

Perché farlo?

Semplice e, al tempo stesso, complicatissimo: per capire se la parte umana di Diasorin, le cellule dell’organismo, partecipano attivamente alla vita dell’intero organismo, al di là della professionalità. O, meglio, se le cellule danno alla professionalità qualcosa di più umano. Nelle parole di Ginevra Molteni, Communication & Brand Manager di Diasorin:

“In un’epoca in cui la comunicazione aziendale rischia di diventare un esercizio di stile senz’anima, questo magazine nasce per restituire voce alle persone, ai loro gesti, ai loro immaginari, e per dare forma visibile ai valori, donando loro un volto, anzi più volti. È qui che il pop incontra il senso: nei corridoi, nelle pause caffè, nei progetti condivisi, ma anche nella vita fuori dall’azienda. È qui che lo humanistic management si fa pratica quotidiana, terreno fertile dove i valori non si dichiarano, ma si vivono. Raccontare un organismo aziendale significa raccontare un’umanità in movimento, che si intreccia in storie, estetiche e connessioni, e che si rinnova ogni giorno nel dialogo tra ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare. È proprio qui che risiede il senso del progetto, nella narrazione continua fatta di linguaggi orali, scritti, visivi ed emotivi che divengono e si trasformano insieme all’ organizzazione stessa. Questo magazine è solo l’inizio. Ma, come ogni inizio, ha l’ardire di definire la direzione.”

Le donne e gli uomini che hanno dato vita a questo primo numero del magazine non avevano mai fatto nulla del genere prima, men che meno per lavoro: hanno scelto di mettersi in gioco e imparare, con dedizione ma divertendosi, per andare a caccia di storie. Le storie che vivono nelle persone accanto a loro, al lavoro, ogni giorno. Quel primo gruppo ha cioè scelto di scoprire le persone sotto la superficie dei colleghi, ha scelto di ascoltare e di chiedere, ha scelto di avviare una comunicazione in grado di oltrepassare lo scambio professionale di informazioni. E ciascuno, a modo suo, ha fotografato quel dialogo, quella connessione, in una delle storie che trovate in questo numero.

Insieme, queste storie rappresentano il primo sasso lanciato nell’acqua. E quel che succederà nei prossimi mesi è che quest’onda umana si allargherà a poco a poco, in cerchi concentrici, coinvolgendo quante più persone possibile in Diasorin. Per raccontare l’umanità non solo l’umanità di Diasorin, ma alcuni dei valori che ci rendono tutte e tutti umani, dentro e fuori dal lavoro.

 

_______

Alessandro Mari 

_______

Condividi:
Link copiato! Incollalo su Instagram.