
Due matrimoni

Un timoroso protagonista si prende la responsabilità di celebrare il doppio matrimonio degli amici, una coppia mista che ha scelto di sposarsi con cerimonia italiana e tamil. Tra sudore, gaffe e riti, scoprirà di possedere un coraggio inaspettato.
Luglio. Primo matrimonio, italiano
Fa particolarmente caldo oggi, o forse sono io che mi sento bruciare in quest’abito blu scuro.
Chi me l’ha fatta fare? Si sa che al sole si mettono colori più chiari, ma mica avrei potuto indossare un beige o un bianco, c’è già lei in bianco, le avrei rubato la scena.
Cavolo, le sessantadue persone che ho davanti avranno notato la mia fronte sudata? Il ciuffetto nasconde, sì. Ma gli occhiali tra un po’ inizieranno l’inequivocabile discesa sul naso…
Smettila di pensare! Ti stanno fissando tutti, è il momento di iniziare.
Che belli che sono loro due, in questi abiti così eleganti. Sono proprio qui di fronte a me, ci divide solo questo tavolino con un lenzuolo di raso bianco panna, molto morbido e… aspetta, una gamba del tavolo balla! Smettila! Sono dettagli, non ci pensare! Guarda loro: hanno dei sorrisi smaglianti, forse dolcemente nervosi, o semplicemente è il loro modo carino per dirmi che devo darmi una mossa e iniziare.
Ho un microfono in mano, durante le prove non c’era. Primo imprevisto.
Ho anche le mani un po’ sudate, e le dita non riescono bene a fare presa.
È acceso? “Prova, Prova, si” e parte il fischio.
Grande! Partiamo col botto. Magari però serve a rompere il ghiaccio. Avercene, di ghiaccio, con ‘sto caldo. Guardo il tizio che mi regola il volume, ha gli occhiali da sole e la camicia bianca (beato lui, è anche all’ombra e sorride), il suo pollice in su mi rincuora. “Si ci siamo”.
Che schifo la mia voce: così alta e tremante. Tutti lo staranno pensando, ma che posso farci, ho solo questa. Come si fa ora? Forse dovrei partire dalle cose che so fare: leggere. Quindi direi di iniziare a leggere queste sette pagine umidicce e incredibilmente pesanti. O forse pesa di più il microfono. Continua a scivolarmi.
E se lo tenessi dall’interruttore con il pollice? Adesso sì che ci siamo. Respiro profondamente e…
“Buongiorno a tutte e tutti, siamo qui in questo bellissimo casolare biellese pieni di gioia per celebrare l’amore di Mattia e Barbara”.
Sono partito, mi sento terribilmente fuori luogo, incespico sulle parole già normalmente, figurati con tutte queste persone davanti. Perché hanno scelto proprio me? Perché?
Non ci pensare. Continua, continua, continua.
Ok, devo cambiare pagina. Faccio attenzione a mettere quella appena terminata dietro agli altri fogli e inizio a leggere la seconda. Sto andando bene, no? Il microfono non fischia e non scivola, forse è alla distanza giusta, e la voce sembra non tremare più, non mi fa più tanto schifo ora che è calma.
Un leggero venticello mi rinfresca la fronte e la mia temperatura corporea ritorna in carreggiata. Sorrido.
No, no, no! Sento il vento scombinarmi i fogli tra le mani, non riesco a finire la frase: “ricordo ancora il giorno in cui Mattia mi…”. Li agguanto e concentro tutta la forza nei polpastrelli sudati, cerco di bloccare il microfono tra l’avambraccio e il petto, e dopo qualche secondo infinito tutto finalmente si placa.
Mi fermo. Alzo gli occhi sui futuri sposi con molta vergogna e trovo il loro sorriso dolce, solo dolce e divertito stavolta. Di sicuro Mattia mi prenderà in giro per i prossimi vent’anni, come ha sempre fatto dopo ogni mia gaffe.
Ricomincio da dove sono stato interrotto. Passa qualche minuto e sono già a pagina cinque. Cosa vuol dire? Che dopo la quinta c’è la sesta e poi… poi la settima! Sta arrivando il fatidico momento delle promesse.
Solo che le gambe non mi sorreggono più, sento il formicolio ai piedi e i fogli ballano il twist. Vorrei sedermi ma hanno messo tutte le sedie dall’altra parte del tavolo, e io ho il mio ruolo da rispettare!
Sento il sangue salire alle guance e devo pronunciare quella frase! Sta per succedere!
“Vuoi tu…”
Marzo. Qualche mese prima del matrimonio italiano
È un giorno di marzo quando Mattia, il mio più caro amico dai tempi dell’università, durante una delle nostre solite cene a base di risate e risotti piemontesi (preparati non da me, perché non ne sono capace), mi conferma la richiesta di celebrare il matrimonio con Barbara. Lui cristiano, lei tamil. Mesi prima mi avevano comunicato questa scelta insieme, davanti a una birra, e in quel momento io ero scoppiato a ridere. “Che bello scherzo, molto divertente ragazzi!” avevo detto, ma i loro occhi d’un colpo erano diventati seri. Seri, sì. Avevano davvero deciso così: io sarei stato il celebrante del loro matrimonio di rito civile. IO! E non sembrava tanto una richiesta, la decisione l’avevano presa, io non potevo fare altro che accettare. Per Mattia e Barbara era scontato che, se qualcuno avesse dovuto farlo, sarei stato io. Ma perché? Quei due lo sapevano come sono fatto, mi conoscono, conoscono benissimo la mia ansia e la mia difficoltà a parlare in pubblico. Eppure hanno scelto me. Che enorme atto di fiducia!
Sarebbe stato un compito impegnativo, me ne rendevo conto, e dovevo prendermene la responsabilità. Potevo farcela, dovevo racchiudere nel giusto numero righe tutto quello che avevo imparato da loro in questi quattordici anni, senza dimenticare niente, utilizzando un tono solenne ma neanche troppo. Dovevo essere perfetto, impeccabile, lo dovevo a loro.
Dovevo essere all’altezza della loro scelta, insomma, non potevo deluderli.
E così ho cominciato a scrivere il famosissimo discorso dopo un’altra serata passata insieme: era tardissimo, il sonno e forse i due bicchieri di vino mi appesantivano le palpebre, ma sentivo di volerlo fare, quindi la penna ha lasciato le prime tracce sul mio taccuino senza righe né puntini. Ho scritto tanto e di getto, scorrendo tra le molte scene del loro passato che i miei occhi riflettevano sul divano marrone che avevo di fronte. Quella notte mi sono addormentato sulla poltrona morbida con la bic in mano.
Nelle settimane successive io e Mattia abbiamo fissato diversi incontri e, in ciascuno, il discorso prendeva sempre più forma e si perfezionava. Sette pagine. Solo sette lunghissime pagine da leggere davanti a tutti! Io e il mio carattere introverso non eravamo a nostro agio all’idea di dover farlo, ma negli anni abbiamo imparato a trovare degli stratagemmi per camuffare le difficoltà e cavarcela al meglio, senza dare troppo nell’occhio.
Così è stato anche per il matrimonio. Ma avevamo un piano: uno specchio, tanta calma e niente in programma per le “serate-prova”. Avrei dovuto leggere il discorso e prendere confidenza con il ruolo del celebrante tre volte a settimana fino alla fatidica data, sbirciando di tanto in tanto la mia mimica facciale, la mia postura, i miei movimenti incontrollati nello specchio. Andava ogni giorno meglio, meno oscillazioni, meno stragi di lettere, più pause coscienti tra una frase e la successiva. Certo, correvo sempre un po’, come se volessi finire il prima possibile, ma sembravo quasi una persona normale! Rimaneva solo un enorme problema: l’ultima frase. Era un incubo – un incubo bello, s’intende. “Vi dichiaro marito e moglie, ora puoi baciare la sposa”. Non riuscivo proprio a pronunciarla, sistematicamente il mio corpo iniziava a tremare e l’emozione, con eccellente tempismo, mi riempiva gli occhi.
Ma ho pensato: “Io do il massimo, non fa nulla se non riuscirò davvero a leggerla con fermezza, spero lo capiscano che sono umano tanto quanto loro, e che la mia commozione avrà la meglio”.
Così poi è stato.
Settembre. Secondo matrimonio, tamil
Secondo giro, altra corsa. Dopo le nozze italiane, eccoci a quelle indiane.
Credevo di aver dato abbastanza col vestito blu che mi faceva sciogliere, e invece no: per il rito Tamil serve un fratello della sposa. E Barbara – figlia unica – mi ha chiesto di diventare il suo per un giorno. E quindi eccomi, fratello a noleggio per ventiquattr’ore.
E sempre fedele alla mia fama di sudatore professionista, vedo. Sono già a chiazze.
Cominciamo male.
Mi sto abbagliando da solo: tunica bianca candeggio, copricapo rotondo bianco-oro (una via di mezzo tra l’Aladdin dei cartoni e un soufflé ben riuscito). Non guardarti il vestito! Guarda gli altri. Tutti coloratissimi. Appunto. Così conciato potrei fare da campione nazionale di fosforescenza: sono l’unico caucasico, palliduccio, vestito di questo bianco abbagliante. Dissimula. Sorridi.
Qui attorno parlano in Tamil a velocità spropositata, pare di ascoltare un nastro che si riavvolge.
Annuisco, annuisco, annuisco. Funziona sempre, finché qualcuno non mi fa una domanda.
Conosco a malapena sette parole di Tamil – otto se conto un “grazie” detto male – meglio che me ne resti muto. Sorridi! Ecco, bravo, fai un altro sorriso. Il sorriso è lingua universale… speriamo.
Questo cos’è? Incenso? Sì è incenso. Ci sono tre bastoncini d’incenso accesi. Sempre tre, ricorre ovunque. Chi è che me l’ha raccontata, questa cosa del numero tre? No, non mi ricordo. Qual’era il senso? Il tre è un numero sacro, mi sa. Scaccia-jella, bonus karma.
Perché su questo tavolo c’è un intero vassoio di banane, tagliate a metà e messe sui bracieri?
Sarà qualcosa tipo… banane flambè? Ah, però, vedi: prima si glassano, poi – puff – fiamma viva.
Sì, però segui gli altri nella stanza principale.
Ecco Mattia, seduto a gambe incrociate. È arrivato quel momento vero? Temo di sì: in fila indiana a bagnare le mani nel latte di cocco ed erbe, e poi… eh, e poi… oddio l’emozione mi sta bloccando il cervello. Qual è la sequenza di azioni? Senti, sbircia quello che fanno gli altri. Gli passano la mano sulla fronte. Ora che tocca a me, cerchiamo di non gocciolare proprio tutto negli occhi a Mattia.
Bon, dai. Meglio del previsto. Nessun danno. Ora però, non scappare!
Sei il testimone d’onore, te lo sei scordato? Ti restano da fare due cose. Falle bene!
Vasca d’acqua con petali galleggianti? Eccola. Uhm, buono questo profumo misto rosa-gelsomino-qualcosa-che-non-so. Asciugamano? Ce l’ho. Devi solo pulire la fronte di Mattia con molta, molta gentilezza, adesso. E magari cerca di non scivolare sul bagnato, se no qui parte lo show.
Bravo! Un attimo di pausa te la sei meritata vah, la processione verso il santuario servirà a questo, dopo tutto. Un vialetto di ghiaia, gli alberi, un po’ di venticello.
Ma davvero questo edificio di mattoni a vista sarebbe un tempio tamil? Non ha assolutamente nulla di indi… ah no. Ok, scherzavo. Questo portone scolpito di verde e oro e tempestato di bassorilievi sacri è decisamente molto indiano, in effetti. Via le scarpe ora: tappeti enormi, statue colorate, c’è un rumore morbido… di passi nudi. Mi piace.
C’è la statua di Ganesh che mi fissa. Sembra dire “rilassati”, e sai che ti dico Ganesh: “magari”.
Ecco Barbara.
Sei splendida, anche oggi. Questi henné sulle mani sembrano una filigrana. Da questo punto in poi devo starle appiccicato: un fratello-ombra, un bodyguard in seta chiara.
Il sacerdote canta in Tamil e io continuo a non capirci niente. Però, non so, forse è l’atmosfera o i forse i fumi di incenso che stordiscono un po’ ma… le sue parole hanno un ritmo che mi calma, sembra quasi un mantra. Qui la gente continua a spostarsi a multipli di tre: tre passi, breve inchino, altri tre. Che imbranato che sono! Conto sotto voce, non vorrei sbagliare matematica proprio oggi.
E alla fine eccoci: “sorella mia” è arrivato il momento di consegnarti al tuo sposo.
Mano nella mano, un respiro lungo e il cuore che martella. Ti passo il braccio di Mattia, ti guardo negli occhi, cerco di non perdere la voce. L’ho fatto, hai visto? È fatta.
Oggi.
Che dire? Montagne russe emotive.
Dall’annuncio alla preparazione, dal primo rito al secondo: un condensato di panico, risate, fuochi di banana e incenso a profusione. Se ci ripenso, sento ancora il battito accelerato, l’imbarazzo di non capire una sillaba, la paura di fare la figura di merda più grande della vita. Ma anche quella strana forza che ti scatta dentro quando dici “Ok, lo faccio” prima che il cervello possa ribattere “Ma sei scemo?”.
E alla fine lo fai davvero. Ti prendi la responsabilità, tremi, sudi, inciampi in due culture diverse…
e scopri che, sotto tutti quegli strati di goffaggine, un po’ di coraggio c’era.
Molti strati sotto, ovviamente.
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Scritto da Giulia Palma
con la redazione di Prendere o Lasciare
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